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mercoledì 17 ottobre 2012

Documento


Pubblichiamo il documento approvato dalla Segreteria Regionale del PSI di Basilicata riunitasi il 15.10.2012 e presentato al Consiglio Regionale del 13.12.2012 sul riordino delle Province.


LA SEGRETERIA REGIONALE DEL PSI DI BASILICATA

nella riunione del 15 ottobre 2012 ha valutato i provvedimenti presi dal Governo e dal Parlamento in ordine al riordino delle Province, come previsto dal D.L. n.95/2012 convertito con la Legge n.135 del 7 agosto 2012.

A seguito dell’esame del provvedimento il PSI di Basilicata esprime le seguenti considerazioni:

1.
In via preliminare, il PSI ritiene che i cittadini lucani non possano ritenersi soddisfatti dell’attività svolta da tutti i rappresentanti istituzionali di Basilicata in seno al Governo e al Parlamento.
Il provvedimento, così come costruito, non avrebbe dovuto condurre al risultato di mantenere una sola provincia coincidente con il territorio della Regione. Eppure il risultato finale determinato dalle decisioni assunte dal Governo nell’individuare i parametri produce il risultato, inaccettabile per la Basilicata, di riorganizzare il territorio lucano su un’unica Provincia avente una dimensione di 10 mila chilometri quadrati. La Provincia più grande d’Italia.

2.
Il PSI ritiene fondamentale garantire la coesione dell’intero territorio regionale, indispensabile per la tenuta democratica della Regione Basilicata.
Coesione e tenuta democratica si realizzano anche con il mantenimento di un elevato grado di policentrismo verticale e anche spaziale nella organizzazione delle istituzioni, reso ancora più necessario dall’indebolimento del sistema dei partiti.
Per questo, senza ambiguità, è necessario raccomandare ai Comuni delle due città capoluogo di Provincia e al Comune  di Potenza, in particolare, la necessità di trovare una responsabile soluzione politica, con un’intesa che conduca al mantenimento nella città di Matera almeno della sede degli organi politici dell’ente provinciale.

3.
La Basilicata ha già perso una grande occasione nel non essere riuscita a concretizzare in tempi accettabili il progetto della “Grande Lucania”; un’idea forte che avrebbe recuperato territori, demografia e risorse nella storia e nelle tradizioni comuni a una parte del territorio della Campania. La Grande Lucania ci avrebbe consentito oggi di non dover subire il ridimensionamento istituzionale che la Basilicata è chiamata ad affrontare.
Con più convinzione e maggiore determinazione, la Basilicata deve riaffermare il riconoscimento della sua peculiare identità ed autonomia, nell’ambito di un riassetto dello Stato in chiave federalista che si fondi, però, su un confronto istituzionale “ortodosso”, non pressato dal vento populista dell’antipolitica o dalle esigenze di bilancio.
La democrazia non può essere cancellata dalla oggettiva debolezza di un Parlamento che ha perso di autorevolezza e di credibilità e che oggi si è assegnato da solo il ruolo di notaio.

Un momento della discussione


giovedì 4 ottobre 2012

La denuncia inascoltata


Purtroppo questi sono i risultati del berlusconismo, al quale certa sinistra e tutti i media fino ad ora si sono accodati. E' solo l'ultimo caso di iniziative, proposte, idee che puntualmente sono state ignorate.


mercoledì 3 ottobre 2012

L’elefante nella stanza


Questa famosa espressione viene usata per denunciare una situazione in cui evidenti verità vengono taciute per compiacere il potere, politico e non. E’ proprio quello che sta succedendo, da un po’ di tempo a questa parte, nel M5S. Il cui consigliere regionale Giovanni Favia, in una recente puntata del programma “Piazzapulita”, ha affermato che nel M5S la democrazia non esiste. Toh, che sorpresa. Un paio di mesi fa Marco Camisani Calzolai, docente allo Iulm, ha pubblicato uno studio secondo il quale oltre la metà dei follower di Grillo (e di altri politici), sono falsi. Mal gliene incolse. La ritorsione dei grillini e del gran capo è stata immediata. Hanno attaccato, attraverso il c.d. mailbombing[1], il malcapitato docente che, per tutelarsi, è stato costretto a rivolgersi alle autorità competenti. E che dire della querelle tra il neosindaco parmense Pizzarotti e Grillo sulla nomina (poi ritirata – il capo è il capo!) di Valentino Tavolazzi cacciato dal Movimento perché inviso a Grillo in quanto reo di aver denunciato lo strano connubio (mai chiarito…) tra lo stesso e la Casaleggio Associati. Sandra Poppi, consigliere comunale di Modena, espulsa perché accusata di denigrare il movimento mentre aveva solo denunciato una scorrettezza ai suoi danni[2]. Vittorio Ballestrazzi, uno dei fondatori del M5S di Modena si oppone all’espulsione. Cacciato anche lui. La lista degli epurati è lunga. A Cento i dissidenti, cacciati perché non allineati riguardo al caso Tavolazzi, hanno modificato il simbolo e il nome formando un nuovo movimento politico. Ma l’episodio più grave resta il caso Favia. A parte la ridicola ipotesi del complotto (le affermazioni sono state fatte durante un fuorionda), vecchio vizio italico usato da molti per giustificare le proprie magagne[3],  la faccenda è talmente seria che Favia, formalmente solo sfiduciato ma non cacciato (che sottile forma di esclusione…), ha replicato alle accuse di Grillo citando l’ormai famosa frase di Fini “che fai mi cacci?”.  Un capo che decide, insindacabilmente e da solo, chi può far parte e chi può candidarsi (a quando il “manifesto della pura razza grillina”?). Molti proclami e poche proposte alcune delle quali veramente assurde come quella di introdurre a Parma il fiorino come moneta di scambio al posto dell’euro. O come quella di rendere pubbliche le leggi on line almeno tre mesi prima dell’approvazione in modo tale da permettere ai cittadini di fare i propri commenti. Assurda perché, se ad esempio, si trattasse di un provvedimento antievasione quel tempo potrebbe bastare agli evasori per fare le contromosse. I militanti, pardon iscritti, del M5S continuano a sostenere, mentendo sapendo di mentire, che sono indipendenti da Grillo. Che rimane l’unico proprietario del logo e di conseguenza il dominus incontrastato del M5S. Un dominus che si arroga il diritto divino, frutto di una molto presunta superiorità morale, di parlare contro tutti e con qualsiasi tono. E se qualcuno si difende da questi attacchi magari sporgendo querela, Grillo si trincera dietro la libertà di parola e della rete. Se però è lui, o il M5S, ad essere criticato allora scatena i suoi integralisti seguaci contro il malcapitato di turno. Senza nemmeno chiedersi se le critiche sono fondate o meno. Alla faccia della libertà di parola, della rete, del civile diritto di critica e del dissenso e, soprattutto, della democrazia. Che non abita nel M5S.


[1] E’ una forma di attacco informatico attraverso il quale grandi quantitativi di email vengono inviati ad un unico destinatario provocandone l’intasamento della posta elettronica. Una delle secondarie conseguenze è l’impossibilità di usare la connessione internet per altri scopi o anche il crash dei server che sono preposti alla scansione antispam e antivirus della posta stessa.

[2] La Poppi, alle regionali del 2009, si piazza seconda alle spalle di Favia. Quest’ultimo, dovendo scegliere tra i collegi di Modena, Bologna e Reggio Emilia, su indicazione del M5S, opta per il primo, consentendo di entrare in Regione all’amico De Franceschi che aveva ottenuto meno della metà delle preferenze della Poppi. Quando si dice la vera amicizia...

[3] Ma come, il M5S non è diverso dagli altri partiti?

giovedì 26 luglio 2012

Cervelli in fuga


Enrico e i voti
"Preferisco che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo". Così Enrico Letta, vicesegretario del Pd, su un'intervista al Corsera. Grillo a noi non piace in alcun modo, ma sentire queste affermazioni da un autorevole esponente di un partito (si fa per dire...) di centrosinistra (anche qui si fa per dire) che aspira a governare il Paese, francamente ci pare troppo. Se Letta voleva fare un assist a Grillo c'è riuscito in pieno. Ancora una volta il Pd in confusione totale. Autorete.


Nichi e le dimissioni
Da Di Pietro e Vendola (ma non solo), spesso abbiamo sentito una frase, soprattutto riferita a Berlusconi e a molti suoi sodali coinvolti in inchieste, non ultimo l'attuale presidente della Regione Lombardia Formigoni: "chi è indagato deve dimettersi!". Pur essendo da sempre garantisti (per noi nessuno è colpevole fino alle condanne definitive), la condividiamo più che altro per una questione di dignità e di moralità. A maggior ragione, però, dovrebbe dimettersi chi è stato rinviato a giudizio! A meno che non si chiami Nichi Vendola. Incoerente

Anna e le preferenze
Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd, ha dichiarato che "il Pd vuole che i cittadini scelgano gli eletti, ma se qualcuno vuole una legge elettorale con le preferenze sappia che non siamo disponibili". E senza preferenze come faranno i cittadini a scegliere chi votare? Forse la Finocchiaro, sulla scena politica da ben 28 anni, ha paura di venire trombata alle prossime elezioni? Sarebbe pure l'ora che si facesse da parte e che non si ricandidasse più. Faccia di bronzo.

Rosy, Beppe, Pierferdinando e i matrimoni omosessuali
Non bastava il mitico Giovanardi che un giorno sì e l'altro pure inveisce contro gli omosessuali, con toni razzisti a dir poco. Rosy Bindi, dopo aver fatto una pessima figura all'assemblea del Pd, dove, appellandosi a cavilli burocratici, ha impedito che si votassero alcune proposte sul riconoscimento dei matrimoni fra omosessuali, ha citato, a supporto della sua (e non solo) posizione una sentenza della Corte Costituzionale che li proibirebbe. Come anche la Costituzione. Falso perché la Corte ha solo detto che per il riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso è necessario una legge e non sia possibile estenderlo automaticamente. Nella Costituzione poi non c'è alcun articolo che li riguarda, tantomeno un divieto. Pinocchia.
Grillo si è voluto distinguere da par suo e, dopo essersi dichiarato opportunisticamente a favore dei matrimoni tra omosessuali, ha accusato la Bindi di non aver mai avuto problemi di convivenza con il vero amore. Non solo volgare ma anche maschilista. Una cosa è rispondere politicamente, un'altra è offendere personalmente. Sull'amore poi. Vergognoso.
Anche Casini ha voluto dire la sua, definendo i matrimoni tra omosessuali  incivili. Incivili e immorali sono le prebende e i privilegi che percepiscono i parlamentari. Ma su questo, il buon Pierferdi, preferisce glissare. Ipocrita.


Il Pd e lo statuto.
Lo statuto del Pd prevede che si possa essere candidati per un massimo di tre legislature. Rosy Bindi, che con l'attuale è alla sesta non potrebbe essere più candidabile. Con lei rischiano molti pezzi da novanta, tra i quali D'Alema, alla settima, Veltroni, alla sesta, Fioroni, alla quarta. In totale sono una settantina, non pochi. In molti, all'interno del Pd, cominciano a non sopportare più "l'arroganza della vecchia guardia nel ritenersi indispensabile" (Sandro Gozi in un'intervista alla Stampa). Il dilemma è concedere una deroga a tutti questi "vecchietti" o dare inizio a quel famoso rinnovamento nelle persone e nelle idee che tanto si predica a parole ma per nulla lo si pratica nei fatti? Amletici.


Silvio.
Abbiamo evitato di commentare la probabile ridiscesa in campo di Berlusconi. Il cui cervello è in fuga da troppo tempo ormai e non fa più notizia.

sabato 14 luglio 2012

Cervelli in fuga: nuova puntata


Leoluca e le poltrone
Eletto per la quarta (!) volta sindaco di Palermo, Leoluca Orlando avrebbe già dovuto dimettersi dalla carica di parlamentare, cosi come stabilisce una sentenza della Corte Costituzionale del 2011, che sancisce l’incompatibilità della carica di sindaco di un comune con più di 20.000 abitanti con quella di parlamentare. A tutt’oggi il buon Leoluca, ricordiamo ras incontrastato dell’Idv siciliano, non ha ancora compiuto questo semplice passo. Il perché non ci è dato sapere. Bostik

Gianfranco e il futuro
Da quando ha abbandonato il Pdl, Gianfranco Fini non ne azzecca più una. Fallito, per ora, il progetto del Terzo Polo, con una formazione politica, Fli, che non è mai decollata veramente, il buon Gianfranco sta cercando in tutti i modi di dare un senso al suo futuro politico sempre meno roseo. E così, l’ultima pensata è stata quella di allearsi con il Pd per il 2013, con Bersani premier, a patto che l’eventuale governo sia appoggiato dagli stessi partiti che sostengono quello attuale. All’interno di Fli le critiche sono piovute come grandine. A tutto c’è un limite hanno sostenuto in parecchi. Opportunismo o colpo di sole?

Michele e la televisione
Michele Santoro è un conduttore sicuramente carismatico ma che spesso predica bene e razzola male. Dopo aver lasciato mamma Rai (con una buonuscita di 2 mln di euro) e fallito l’accordo con La7, fonda Servizio Pubblico, un programma indipendente trasmesso in streaming, finanziato con una libera sottoscrizione di 10 €. In poco tempo fu raccolto 1 mln e così l’avventura iniziò. Oggi, a distanza di un anno, Santoro ritorna sulle proprie decisioni e firma un cospicuo accordo commerciale con La7 (8 mln di euro per 24 puntate)  per trasmettere Servizio Pubblico. I sottoscrittori del web non l’hanno presa bene. E delusi dalla “rivoluzione tradita” chiedono conto del denaro che hanno dato al conduttore. Che promette nulla cambierà. Servizio pubblico o privato?

Pierluigi e le primarie
“Faremo le primarie”. Non più di un mese fa il segretario del Pd Pierluigi Bersani faceva questo annuncio. All’interno del Pd si scatenò la corsa a chi doveva parteciparvi. Ogni giorno i candidati aumentavano sempre più. Ma nell’o.d.g. dell’assemblea nazionale del Pd del 16 luglio la discussione sulle primarie è scomparsa con buona pace dei c.d. rottamatori o rinnovatori. I quali, a partire da Renzi e Civati per finire alla Serracchiani hanno preferito, democristianamente, glissare sull’argomento condividendo la scelta del segretario. Ma a pochi giorni dall’assemblea nazionale ecco il “contrordine compagni!”. Le primarie si faranno purché non si trasformino in un congresso del partito. Il rinnovamento, come il paradiso, può attendere. Confusionario.

martedì 3 luglio 2012

Cervelli in fuga


E’ il titolo di una nuova rubrica periodica con la quale commenteremo le “perle” più luminose della politica nostrana.

Elsa e la Costituzione.
Dopo le lacrime di coccodrillo e il pasticcio sul numero degli esodati, ennesimo scivolone, ancora più rovinoso, del ministro del Welfare Elsa Fornero. Ad un’intervista al WSJ[1] ha dichiarato che “il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio”. L’infelice e improvvida dichiarazione si commenta da sola. Per rinfrescare la memoria alla sig.ra ministro ricordiamo che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”[2] e che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettive questo diritto”[3].
Urge un ripasso della Costituzione. Rimandata a settembre.

Debora e la storia d’Italia.
Debora Serracchiani, giovane europarlamentare del Pd, si è detta favorevole all’alleanza tra Pd e Udc. D’altronde, ha affermato, “il Pci e la Dc, insieme, fecero leggi come quella sul divorzio o sull’aborto”. Come? Il Pci e la Dc? Convinti che non sia andata così, per scrupolo, abbiamo controllato sui libri di storia. La legge sul divorzio si deve principalmente al Partito Socialista Italiano[4]. La Dc  votò contro e raccolse le firme per il referendum abrogativo. Indetto il referendum, solo il Psi e i Radicali, tra i partiti che l’avevano votata in Parlamento, fecero una massiccia campagna elettorale a favore del NO (che poi vinse nettamente). Il Pci, per non irritare il Vaticano e convinto che il NO avrebbe perso, si tenne opportunisticamente in disparte. La legge sull’aborto è invece una battaglia vinta dai Radicali. Anche in questo caso il Pci si limitò a votare a favore in Parlamento mentre la Dc votò contro. Suggeriamo alla Serracchiani di studiare approfonditamente la storia dell'Italia. Nel frattempo, bocciata senza appello!

Nicola e Tonino. I ricatti della strana coppia.
Sempre a proposito dell’alleanza Pd-Udc. Nichi Vendola e Tonino Di Pietro spaventati di rimanere ai margini di una futura coalizione di centrosinistra, lanciano ricatti e ultimatuma al Pd. “Non mi interessa un’alleanza tra Pd e Udc. Io mi siedo a parlare con il Pd solo se c’è anche Di Pietro” ha dichiarato Vendola. Una strana coppia, Vendola e Di Pietro. Il primo ha ripetuto come un mantra ossessivo di volere le primarie di coalizione per poi tirarsi clamorosamente indietro e continua a non chiarire con quali alleanze vuole correre alle elezioni. Il secondo ogni giorno non risparmia critiche feroci al Pd ma vuole ripartire dalla “foto” di Vasto. Nel frattempo, Beppe Grillo e il M5S ringraziano per la straordinaria e gratuita campagna elettorale a favore che questo litigioso centrosinistra gli sta facendo. Autolesionisti.

Umberto e l’orgoglio padano.
Una fine ingloriosa. Ormai sul viale del tramonto, messo definitivamente da parte con la carica simbolica di presidente del partito, per l’ultima volta Umberto Bossi ha provato a scaldare gli animi, al congresso della Lega, senza riuscirci. “La Lega non ha rubato niente, i farabutti sono i romani, non i padani”. Un pessimo e vergognoso canto del cigno. Penoso.



[1] Wall Street Journal
[2] Art.1 comma 1 Cost.
[3] Art.4 comma 1 Cost.
[4] con la presentazione, nel 1965, di un progetto di legge del deputato Loris Fortuna,  integrato da un altro progetto di legge del deputato liberale Antonio Baslini, prima di venire approvata il 1° dicembre 1970. E’ conosciuta anche come legge Fortuna-Baslini.

mercoledì 13 giugno 2012

L’opera dei pupi


Vi chiediamo scusa anticipatamente, gentili lettori, per questo post. Il perché è presto detto. Ci ostiniamo a discutere di politica mentre l’Italia è attanagliata da atroci dubbi su chi siano i giocatori omosessuali della Nazionale e se Balotelli debba di nuovo partire titolare o meno alla prossima partita. Di fronte a siffatte drammatiche situazioni, ci rendiamo perfettamente conto che la politica è fuori luogo. Purtroppo (o per fortuna, dipende dai punti di vista) noi siamo un partito politico e quindi di politica dobbiamo parlare, non di altro. Ci vogliamo occupare della situazione politica siciliana, che poi è sintomatica di quella nazionale. Raffaele Lombardo, a capo di una “strana” maggioranza (centrodestra più il Pd), ha rassegnato le dimissioni in quanto indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Fra quattro mesi si andrà di nuovo alle elezioni. Come da copione arrivano le prime candidature. Claudio Fava, responsabile siciliano di Sel, Rosario Crocetta e Mirello Crisafulli del Pd (come d’uopo quando si tratta dei Democratici). Partiamo da Claudio Fava. Nulla da dire sulla persona, sul suo straordinario impegno nella lotta alla mafia (che gli ha ammazzato il padre, il giornalista Pippo Fava). Il punto è un altro. Fava, seppur giovane d’età (rispetto all’attuale classe politica) ha già alle spalle una notevole carriera politica. Possibile che all’interno di Sel siciliano non ci siano altre personalità forti sulle quali puntare? Dov’è allora il ricambio della classe politica tanto declamato anche da Vendola e che il paese intero richiede a gran voce? La realtà, lo ribadiamo ancora una volta, è che Sel è una stretta oligarchia. Così come l’Idv. Dove, sempre in Sicilia, si è consumata una lotta intestina tra Leoluca Orlando e Fabrizio Ferrandelli, con quest’ultimo espulso dal partito dipietrista in quanto reo di essersi candidato alle primarie (poi vinte) del centrosinistra per le elezioni comunali a Palermo, che sarebbe spettata ad Orlando, il capo dell’Idv isolana, un volto nuovo della politica! Ad ogni elezione, sia per Sel che per l’Idv, i volti e i nomi che girano sono sempre gli stessi. Il sospetto è che si predichi bene e si razzoli male. A questo punto dovremmo fare le considerazioni sugli altri due candidati, quelli del Pd. Lo sappiamo, gentili lettori, che parlare del Pd è come sparare sulla Croce Rossa. Ma non è colpa nostra se il partito di Bersani non ne azzecca una. In Sicilia ha poi dato il meglio, pardon peggio, di sé. Il pasticcio sulle primarie alle comunali per Palermo, con le solite spaccature all’interno,  ne è un esempio evidente. Ma è con l’appoggio e la conseguente entrata in maggioranza di centrodestra alla Regione Sicilia(della serie: la coerenza si chiede sempre agli altri mai a sé stessi. Chi ha orecchi…) che il partito di Bersani ha raggiunto la summa della politica. Dopo aver prima appoggiato esternamente Lombardo, per poi entrare in maggioranza e approvare molti provvedimenti della giunta, il Pd ha chiesto la sfiducia del Governatore, abbandonando la nave prima che affondi. E siccome il Pd sa sempre cosa fare, oltre ai due propri candidati, sta pensando di appoggiare la candidatura di Gianpiero D’Alia, principale esponente dell’Udc siciliano. Quando si dice avere le idee chiare! A questo si aggiunga che Rosario Crocetta, altro esponente della lotta alla mafia, è già europarlamentare mentre il senatore Mirello Crisafulli, incurante del partito, si è autocandidato. Dimenticandosi che è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio (di dimissioni o espulsione dal partito manco a parlarne. D’altronde Crisafulli è un vero e proprio “ras” delle preferenze). Ancora una volta il centrosinistra si presenta spaccato. Una pessima opera dei pupi non c’è che dire. Che non promette nulla di buono in vista dei prossimi appuntamenti elettorali.

lunedì 28 maggio 2012

La prova del nove


Infine è successo. Federico Pizzarotti, candidato sindaco del M5S, è riuscito a battere il suo omologo di centrosinistra e a diventare primo cittadino di Parma. Ormai tutti i talk show ne parlano. Il M5S è il nuovo astro (per forza…) nascente della scena politica italiana. Cosa ha determinato il successo dei grillini? Proveremo a fare un’analisi politica degna di tal nome, senza la presunzione di avere la verità in tasca e con il solo scopo di portare, a chi ci legge, uno spunto di riflessione e di discussione. Il M5S si è presentato praticamente solo al Nord. Il suo successo, per quanto di grande portata, è per ora limitato, si fa per dire, a questa parte dell’Italia. Vedremo se e quando attecchirà nel resto del Paese. Il Nord ha attraversato una crisi politica molto grave. La Lega di Bossi è crollata sotto il peso degli scandali e il Pdl l’ha seguita a ruota. Sicuramente ciò ha influito non poco sul risultato delle elezioni amministrative. A Parma si usciva da una gestione di malaffare e tangenti. L’avversario di Pizzarotti era l’attuale presidente della Provincia di Parma, non certo un volto nuovo, che aveva avallato parecchi fallimentari progetti della precedente gestione amministrativa. Infine c’è da considerare anche l’elevato numero dell’astensionismo sia al primo turno che ai ballottaggi. Con questo non vogliamo affatto sminuire il successo del M5S. Ora però comincia il bello. Per dirla con l’Alighieri, “qui si parrà la nobilitate” del M5S. Capiremo se dietro questa nuova formazione politica ci sono persone e programmi credibili o è solo populismo. Il dubbio c’è. All’indomani delle elezioni sono già volati i primi stracci. Pizzarotti, sovvertendo il detto secondo il quale la vittoria ha molti padri mentre la sconfitta è orfana, ha rivendicato tutta per sé la vittoria. Grillo non l’ha mandata giù e rispondendogli a muso duro ha detto che sono i parmensi ad avere vinto non Pizzarotti. Il quale è stato apertamente accusato da molti grillini, sul blog del capo, di alto tradimento e lesa maestà. Il duro scontro è proseguito a proposito delle prime nomine di Pizzarotti, reo di aver chiamato, come collaboratore, un espulso dal M5S. Insomma “principio sì giulivo ben conduce[1]. Anche il centrosinistra ha pagato dazio. Idv e Sel più di tutti. Non capiamo, e non siamo gli unici, i toni soddisfatti del segretario del Pd. Che ha perso tutte le primarie e quindi i candidati sindaci del centrosinistra, poi eletti, non erano espressione del partito di Bersani. Ad eccezione di quello di Parma…In molti, all’interno del Pd, hanno apertamente criticato il segretario e tutta la nomenclatura del partito, accusati di aver sbagliato molto in queste elezioni a partire dai candidati, giudicati vecchi e “ammuffiti”. Ai già noti Renzi e Civati (che ha già detto di volersi candidare per le elezioni regionali lombarde con o senza il placet del partito!) si sono aggiunti, tra gli altri, Paola Concia e Deborah Serracchiani. Insomma , la notte dei lunghi coltelli all’interno del Pd sembra non avere mai fine. Il Partito Socialista ha ottenuto un buon risultato complessivo. Quando si fa politica in maniera seria e credibile, poi si viene sempre ripagati. Ovviamente questa lezione vale per tutti non solo per noi socialisti. Ma la strada per la nostra risalita è lunga e c’è ancora tanto da lavorare. Queste elezioni hanno portato una nuova, prepotente, voglia di cambiare il modo e i protagonisti dell’attuale politica. Il M5S è una realtà con la quale bisogna confrontarsi non sul terreno della demagogia e del populismo, o liquidandola frettolosamente come qualcuno sta facendo in questi giorni, ma con programmi e proposte serie portate da persone oneste, credibili e non ultimo, sobrie. Soprattutto bisogna ritornare a parlare ai cittadini, a fare politica nelle sezioni e in mezzo alla gente, non in televisione com’è avvenuto fino ad ora. Bisogna svecchiare la classe politica e dirigente di questo paese che ormai ha fatto il proprio tempo e deve farsi da parte. E’ questa una delle principali sfide del M5S. L’appuntamento è per il 2013. Un’occasione, forse l’ultima, che hanno i partiti di poter essere in grado di attuare il forte cambiamento che il paese chiede loro e non di subirlo per mano di altri. Pena il loro stesso fallimento. Come direbbe Pietro Nenni, rinnovarsi o perire.


[1] Matteo Maria Boiardo (1441-1494).

giovedì 10 maggio 2012

Considerazioni sul voto delle amministrative


Senza essere il Nostradamus di turno, ci sono delle cose non prevedibili a differenza di altre. All’inizio del campionato nessuno, nemmeno il tifoso più ortodosso, poteva prevedere la vittoria finale della Vecchia Signora del calcio italiano. Au contraire erano  prevedibili i risultati di queste elezioni amministrative. Crollo verticale del Pdl, sonora sconfitta della Lega Nord, Terzo Polo che praticamente non esiste, Sel e Idv raccolgono misere percentuali (tra il 3% e il 4%), il Pd tiene botta ma non vince. Alla luce di questi risultati il 3% ottenuto dal Psi, nonostante la perdurante e manifesta ostilità mediatica, è più che soddisfacente. Avremo occasione di ritornare, in un prossimo post, sul nostro risultato e sulle prospettive del socialismo in Italia. E poi ci sono i vincitori:gli astensionisti e la nuova star della politica, pardon antipolitica, italiana cioè Beppe Grillo e il suo M5S. In realtà i movimenti antipolitici non sono una novità. Il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini ne è il capostipite. Per attenerci alla Seconda Repubblica, la Lega Nord non è forse nata come movimento antipolitico e populista? Forza Italia, nei suoi primi vagiti, era sicuramente populista. L’Idv di Di Pietro può essere definito l’erede moderno del Fronte dell’Uomo Qualunque, vista la totale mancanza di politica che lo contraddistingue. E come non notare che a capo di ognuno di questi partiti c’è un unico grande timoniere proprio come il M5S? Ancora, come si può definire antipolitico o un non-partito (definizione tanto cara a Grillo) un movimento che partecipa attivamente, con una propria lista, con un proprio simbolo, con i propri candidati, alle elezioni? Non è quello che fanno tutti i partiti? Vent’anni fa, sull’onda di Tangentopoli, ci fu la discesa in campo di un novello uomo della Provvidenza, magnate dei media e anch’egli antipolitico. Adesso ne abbiamo uno nuovo (di uomo della Provvidenza) che i media, soprattutto i nuovi (i social network), li conosce e li usa benissimo. Entrambi (allora c’era anche la neonata Lega Nord) hanno cavalcato la tigre del malcontento e degli scandali politici con la sola arma del populismo e della demagogia. Non è un caso che su 100 nuovi elettori del M5S, quasi il 25% votava Pd, il 16,50% Lega Nord e quasi il 14% Pdl[1]. Intendiamoci. La scoppola ci voleva e pure forte. Il fenomeno Grillo è nato perché gli attuali partiti sono ridotti chi a gruppi di capibanda che voglio principalmente spartirsi il potere (il Pd ne è un esempio), chi a formazioni che accentrano il potere in un’ unica persona (Idv, Sel, Pdl, Udc). Per non parlare dei privilegi, delle prebende e degli sprechi. Noi crediamo che con il populismo e la demagogia non si va da alcuna parte. Allo stesso tempo crediamo che non si può andare avanti con questo modo e questi attori politici. I partiti devono riformarsi, devono svegliarsi dal torpore che li attanaglia da un ventennio. Devono riprendersi la loro funzione di indirizzo politico, non abdicare a essa e alle grandi responsabilità che comporta, come hanno fatto mettendo in sella un governo tecnico. Un’ultima considerazione. La definiscono antipolitica perché in tanti considerano la politica “sporca”. Abbiamo già sentito questa definizione un po’ di tempo fa, a proposito di politica locale. Chi, come noi, fa parte di un partito, è “sporco”. Essere in un partito significa avere il coraggio di un’identità politica, o come si suol dire dalle nostre parti, di “mettersi la maglietta”. Il coraggio della convinzione di un’idea politica ben definita, di appartenenza a questa idea, con tutte le conseguenze passate, presenti e future che ciò comporta. Il coraggio di non annullare questa identità in indefiniti calderoni politici che di politica ne fanno, per ora, ben poca, solo perché i partiti vanno stretti (magari per motivi poco nobili…) o per cavalcare onde di qualche genere. Anche per questo Grillo e il suo M5S non ci piace affatto. Noi rispettiamo tutte le appartenenze ma altresì pretendiamo rispetto per la nostra, sia come socialisti che come partito in generale. Ci vogliamo confrontare sulle proposte, sulle idee e sui programmi non sulle appartenenze a questo o quel partito o movimento che sia. Questo è per noi il sale della democrazia, anzi la democrazia. Altro che populismo e demagogia.



[1] Fonte: Corriere della Sera.

martedì 1 maggio 2012

Il 1° maggio e l'articolo 18




Oggi il nostro pensiero e i nostri auguri vanno non solo a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori ma anche, e soprattutto, a chi è disoccupato o ancora alla ricerca di un’occupazione. In occasione di questo 1° maggio e nell’ambito della sempre più accesa discussione della riforma del lavoro e dell’art.18, postiamo un’ întervista di Gino Giugni. Per i più giovani e per chi non lo conoscesse, Gino Giugni è una figura cardine del mondo del lavoro e del riformismo socialista italiano. Infatti Giugni è il padre di quella che è la più importante legge sul lavoro del nostro paese,  l’architrave del giuslavorismo in Italia: la legge n. 300 del 1970 meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori”. E’ stato l’inventore del TFR (Trattamento di Fine Rapporto) e ha legato il suo nome anche ad un’altra riforma molto importante, in qualità di Ministro del Lavoro socialista del Governo Ciampi: il protocollo del 1993 sulla politica dei redditi, che favorì il risanamento dei conti pubblici e cambiò il corso delle relazioni industriali. Per il suo impegno e per la sua politica autenticamente socialista e riformista Giugni fu gambizzato, nel 1983, dalle BR. E’ venuto a mancare nel 2009. La seguente intervista fu concessa alla rivista Mondoperaio dieci anni fa e venne pubblicata nel numero di marzo/aprile del 2002.

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è oggi il grande idolo polemico del dibattito sulla nuova politica del lavoro. Cosa ne pensi?
Che l’articolo 18 rappresenti il senso più profondo dello Statuto dei lavoratori lo dimostrano proprio le polemiche attuali. Da una parte e cioè da parte dei lavoratori e da parte di governo e Confindustria, la modifica, l’abrogazione o la salvaguardia di questo articolo hanno assunto le dimensioni di una posta in gioco simbolica attorno a cui si combatte la battaglia finale pro o contro lo Stato sociale. Un vero guaio, perché dalle guerre simboliche, a differenza che da quelle reali, si esce a fatica e con perdite quasi sempre pesantissime. D’altro canto è la storia stessa della sua nascita e della sua attuazione a giustificare questo accanimento.

Ecco, puoi dirci quali furono i motivi ispiratori della disposizione?
I precedenti non erano, per così dire, brillanti: prima che entrasse in vigore la legge nota come Statuto dei lavoratori, c’era una legge del 1966 che era stata fortemente voluta da Pietro Nenni sul reintegro dei licenziamenti individuali.
Ma restava in gran parte inattuata. L’ articolo 18 dello Statuto la riprese e la superò, divenne il punto nodale di un nuovo regime di garanzie dei lavoratori e, soprattutto, di un nuovo clima di cui proprio la giurisdizione del lavoro si fece interprete.

E cominciò anche così la stagione dei “pretori d’assalto”.
Infatti. Oggi l’espressione non dice più granché, è una stagione che si è esaurita, assieme a quella eroica delle grandi rivendicazioni sindacali, negli anni settanta. Ma fu proprio sull’attuazione dell’articolo sul reintegro dei licenziati senza giusta causa, cioè sull’effettività dell’articolo 18, che quella stagione prese lo slancio, gettando nello sconcerto una classe imprenditoriale che credeva di poter aggirare la norma, proprio perché era convinta che sul piano attuativo la legge avrebbe finito sempre per funzionare a suo favore. Perché non va dimenticato che oltre all’articolo 18 nello Statuto ce n’è un altro, il 28, non meno centrale, visto che istituiva un giudice speciale per le controversie del lavoro. Probabilmente la memoria sociale è più lunga di quella politica, e gli imprenditori che trattano l’articolo 18 come una gabbia da cui bisogna liberare la flessibilità del mercato del lavoro non hanno dimenticato il grandissimo choc provocato dall’introduzione del principio della reintegrazione: più che altro, come ho già detto, dalla scoperta della sua effettività attraverso l’attuazione radicale, quasi ultra petitum, che ne fecero i cosiddetti pretori d’assalto. I pretori costrinsero gli imprenditori a capire che lo Statuto esisteva e la sua effettività, in gran parte concentrata nell’articolo 18, non poteva essere aggirata. Fu una rivoluzione che cominciò proprio in alta Italia, nel già operoso Nord-Est, con la sentenza di un tribunale veneto: è facile immaginare quale scalpore produsse nell’Italia degli anni settanta.

Quali erano le altre esperienze europee ed occidentali?
A quell’epoca, cioè la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, il cerchio del garantismo sociale si allargò in tutti i paesi europei e occidentali, persino in Inghilterra, che è la vera patria della mano invisibile dell’economia e del conflitto sociale senza mediazione e senza quartiere. In altri paesi, a cominciare dalla Germania, in materia di reintegro prevale tuttora il principio della compensazione finanziaria, una compensazione che è spesso molto alta. Ma il parallelo che mi sembra più interessante da sviluppare non è tanto con le esperienze europee più o meno affini a quella italiana, quanto con un sistema giuridico, quello americano, che solitamente è visto come assolutamente antitetico al sistema europeo. Bene, con il Wagner Act anche gli Stati Uniti conobbero, e prima dell’Ita1ia, un sistema di tutela forte, sia pure basato sull’arbitrato e limitatamente ai contratti collettivi, del diritto al posto di lavoro. Nel 1965 ero a Los Angeles, e un mio amico, Frederik Mayers, dirimeva in loco, cioè nel capannone di una industria dolciaria, una controversia arbitrale su un licenziamento: ricordo che, particolare molto americano, sia il rappresentante sindacale che quello dell’azienda portavano in testa un berretto di carta da pasticciere. Mayers era un professore di relazioni industriali, ma svolgeva una funzione equivalente ai nostri pretori d’assalto. Segno che il diritto ad essere reintegrati nel posto di lavoro dopo un ingiusto licenziamento può essere interpretato in un’ottica liberal e non solo statalista.

Quanto c’è di simbolico e quanto invece di effettivo nella polemica tra governo e sindacati?
A dispetto di alcune evidenze di mal funzionamento, e anche se ha probabilmente esaurito la sua carica innovativa - e soprattutto i suoi meccanismi di attuazione, sempre più farraginosi, hanno finito per scontentare anche i lavoratori, oltre agli imprenditori che lo ritengono il fulcro di un sistema rigido - l’articolo 18 continua a rappresentare, per il movimento dei lavoratori, il bastione psicologico contro l’attacco finale a tutto quello che intendiamo con la definizione di Stato sociale.

Negli ultimi mesi, mentre infuriava la polemica sulla proposta di modifica avanzata dal governo, hai più volte ribadito che oggi non lo riscriveresti negli stessi termini di allora.
Ho detto che non lo riscriverei ora perché la struttura normativa è invecchiata. E se mi si permette un appunto, credo che tentare a suo tempo un aggiornamento in senso riformista di quelle norme avrebbe evitato oggi gli scontri, le divisioni e le semplificazioni cui stiamo assistendo. Di questa esigenza innovativa, in anni passati, solo la pubblicistica non ha mai smesso di parlare. La pratica riformista, invece, si è limitata a qualche sortita, come quella di Massimo D’Alema al congresso del Pds del 1996, quando l’allora segretario fece un cenno abbastanza ampio sull’opportunità di un intervento correttivo dell’articolo 18. Una proposta che cadde nel vuoto perché si scontrò subito con l’opposizione intransigente della Cgil. Il colpo di grazia alle possibilità di innovare senza stravolgere il senso garantista della norma lo diede il referendum del 2001 con il suo rigido aut-aut che, come è noto, naufragò sull’iceberg della mancanza di quorum. Il resto è storia recente, non troppo edificante.

A più riprese il ministro Maroni ha decretato la morte della concertazione. A tuo avviso questa affermazione, che peraltro richiama analoghe prese di posizione della Confindustria, si ricollega alla proposta di modifica dell’articolo 18? Oppure si può prestare fede all’affermazione che gli elementi di garanzia presenti nella disposizione si sono convertiti nel tempo in vincoli eccessivi alla flessibilità del mercato del lavoro? In ogni caso, secondo Aris Accornero, non è detto che la flessibilità in uscita crei più occupazione.
La parola flessibilità non mi piace, anzi mi dà francamente ai nervi come tutte le parole-slogan che dietro una maschera di enfasi dissimulano l’ambiguità dei loro contenuti. Effettivamente l’equazione fra più flessibilità e più occupazione, ad esempio, è ancora tutta da dimostrare. Quanto alla concertazione, per la destra europea è un’idea morta e sepolta. Il berlusconismo non fa che orecchiare questa liquidazione di una politica che in Italia, per altro, non ha mai avuto modo di dispiegare tutte le sue potenzialità, anche per colpa della diffidenza di alcuni settori del mondo sindacale, segnatamente all’interno della Cgil - che oggi la rimpiange - e di una certa sinistra che ha il culto idolatrico del conflitto sociale. Ora c’è il “dialogo sociale”, formula più duttile e più comoda che esclude preventivamente qualsiasi ipotesi di cogestione della politica economica ed espone, come qua e là si può già notare, il movimento sindacale a gravi rischi di divisione interna. Anche se non si può non registrare una certa differenza di percezione all’interno della stessa maggioranza di governo, dove, soprattutto dentro Alleanza Nazionale, sopravvive una “destra sociale” assai meno propensa dei liberisti puri e duri a governare l’economia e il mercato del lavoro senza alcun riguardo al consenso sociale. Le culture politiche, evidentemente, non si cambiano dall’oggi all’indomani.

Tra le soluzioni avanzate dal Libro Bianco per sopperire alle lungaggini dei processi in materia di licenziamenti c’è l’arbitrato. Se non andiamo errati, si tratta di una tua vecchia proposta.
Quella dell’arbitrato è una proposta che risale alla mia libera docenza: un saggio di novanta pagine che era interamente dedicato all’arbitrato e che ebbe una sorte per così dire controversa. I comunisti mi attaccarono, mentre fui fieramente sostenuto da Giulio Pastore. Più tardi Tiziano Treu ci ha fatto un disegno di legge che, come tanti altri, è rimasto lettera morta. Ma io continuo a ritenere che quella arbitrale, tra le soluzioni possibili, rimanga la più sensata: istituire uno strumento di tutela giudiziale e andare a un giudizio privato, sostituendo il giudice con un collegio arbitrale, che deve essere composto attraverso una trattativa tra le parti in causa, può permettere di accelerare quegli iter processuali che con la loro lentezza danneggiano sia gli imprenditori che i lavoratori, e che sono diventati uno dei grandi argomenti polemici agitati dal partito degli “abolizionisti” dell’articolo 18.

Secondo altre opinioni, tra cui quella del sostituto procuratore della Corte di Cassazione Martone, uno dei modi per accelerare i processi sui licenziamenti consisterebbe nel creare una corsia preferenziale nel contenzioso del lavoro, magari aumentando contestualmente il numero dei magistrati. Sei d’accordo?
Non nego che si tratti di una buona idea. Considerando la situazione della giustizia italiana, però, non mi sembra granché realistica. Avevamo creduto nella riforma Bertoldi sul processo del lavoro del 1973, ma si è rivelata un mezzo fallimento. L’ accelerazione c’è stata ma non è stata sufficiente. No, il ricorso alla giustizia privata mi sembra una prospettiva più attuabile.


sabato 28 aprile 2012

Il messaggio del Presidente della Repubblica


"Caro Riccardo, in occasione della manifestazione indetta a Genova dal Partito Socialista Italiano, assieme alle fondazioni socialiste, per ricordare e festeggiare il 120° anniversario della nascita del Psi, invio a lei e a tutti i partecipanti il mio più sentito saluto.
La vostra iniziativa non rappresenta solo un contributo alla celebrazione di una lunga e gloriosa tradizione politica, intrecciata intimamente alla storia del nostro Paese, alle battaglie per il progresso economico e civile e alle conquiste democratiche e sociali. 
Il filone del pensiero socialista, profondamente radicato nel nostro continente, costituisce un patrimonio di valori e di idee la cui attualità è da approfondire in rapporto a sempre vive esigenze di giustizia e solidarietà nella società e di equità e collaborazione internazionale: esigenze e punti di riferimento imprescindibili anche di fronte alla grave crisi economica e sociale in atto e ai mutamenti e alle tensioni del mondo d’oggi.
Con questo spirito esprimo a lei e a tutti i partecipanti i migliori auguri, apprezzando la vostra volontà di concorrere attivamente alla vita politica e al confronto democratico".

                                             Giorgio Napolitano                            
 


Buon compleanno!


Il 15 agosto del 1892 nacque a Genova, nella sala Sivori, il Partito dei Lavoratori Italiani, unione della corrente riformista di Filippo Turati e di tutti quei movimenti operai di ispirazione marxista che si battevano per l’uguaglianza e la giustizia sociale. Un anno dopo, durante il congresso di Reggio Emilia, il partito assunse finalmente il nome che porterà con orgoglio per più un secolo, quello di Partito Socialista Italiano. 
A centoventi anni di distanza, oggi sabato 28 aprile 2012, il PSI sceglie di celebrare quello storico evento a Genova, nella stessa sala che diede la luce a cuore ed anima del riformismo italiano. Riportiamo il messaggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e le riflessioni di Augusto Barbera, di Giuseppe Tamburrano, di Don Andrea Gallo e di Francesco Alberoni.


Augusto Barbera, direttore della rivista Quaderni Costituzionali e professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Bologna dal 1994, ha elencato alcuni dei contributi più importanti realizzati dal PSI in Italia. «Non è possibile ricostruire in poche righe il ricordo di un partito così importante per la storia del nostro Paese. Tra i tanti meriti del PSI non possiamo dimenticare il contributo dato alla nascita della democrazia nel nostro Paese, essendo  stato il primo partito di massa nella storia italiana; la battaglia, importantissima, per sconfiggere il fascismo; l’apporto alla Costituente; la modernizzazione del Paese con le riforme del  primo centrosinistra; il rafforzamento della politica di cooperazione atlantica con i governi Craxi; l’aver posto il tema delle riforme istituzionali, pur se mai riuscito e mai perseguito fino in fondo, con l’eccezione del superamento del voto segreto. Manca, purtroppo, tra i successi del PSI il tentativo di unificare la sinistra dopo la caduta del muro di Berlino. Sarà questo insuccesso politico, e non Tangentopoli, la causa di fondo della sua crisi».

Il professor Giuseppe Tamburrano, storico dirigente del PSI e attuale presidente della Fondazione Pietro Nenni, auspica un ritorno agli ideali che sono stati alla base della fondazione del partito, augurandosi che i giovani riescano oggi a portare avanti un testimone importante e a lungo trascurato. «Il centoventesimo anniversario è un evento straordinariamente rilevante. Il PSI è il partito più importante della storia d’Italia, un partito che ha lottato per cause giuste. Ha, certo, commesso degli errori ma ha amato profondamente ciascuno dei suoi compagni. Per me, come la crisi del capitalismo dimostra, non è morto. Sono morti forse i socialisti ma spero che le nuove generazioni saranno in grado si riprendere in mano quella bandiera gloriosa, per battersi per quegli stessi ideali all’insegna dei quali è nato il partito nel lontano 1892. Ideali di fratellanza, uguaglianza e libertà per tutti. Ideali dei quali oggi più che mai si sente il bisogno, particolarmente in Italia. Ricordiamo questo anniversario non come una commemorazione di un caro estinto ma come un impegno per riunire chi aderisce a quegli ideali degli inizi (ovviamente calati nel mondo moderno e attualizzati), per dare maggiore giustizia libertà e uguaglianza a tutti gli uomini e a tutte le donne italiane».

Don Andrea Gallo, guida la comunità genovese di San Benedetto al Porto da oltre quarant’anni. Al contrario della curia genovese, che “incoraggia il candidato del pdl, alle elezioni comunali di Genova Don Gallo sostiene, come anche il Partito Socialista Italiano, Marco Doria, il candidato indipendente che alle primarie ha sbaragliato il Pd.
Per Don Gallo “chi riprende i valori del socialismo è da abbracciare subito. I valori non muoiono mai, magari possono cambiare di nome. Quando il presidente Pertini passava per i paesi, tutti si toglievano il cappello e lo salutavano. Quando i bambini chiedevano: “Chi è quello?”, noi rispondevamo: “Un galantuomo”.

Il sociologo Francesco Alberoni ha voluto invece ricordare l’importanza del socialismo come peso sullo scacchiere internazionale, in un momento in cui il riformismo veniva piuttosto messo in disparte. «Il partito socialista è stato il grande protagonista del riformismo. È vero che in questo senso c’è stata anche una grande tradizione nell’area cattolica ma di fatto il vero riformismo è figlio del socialismo. In questo senso il Psi non ha mai avuto dubbi: non ha mai voluto eliminare il capitalismo e creare un “sistema perfetto” ma riformare nel concreto, partendo dal basso. Aveva una vena marxista ma non era dominante, non riduceva la vita all’economia. C’è una grande tradizione, quella riformista, che è stata il lievito fecondante delle migliori riforme che abbiano condizionato l’equilibrio europeo, proprio nel periodo in cui erano dominanti gli estremismi. Il socialismo ha avuto la consapevolezza dei limiti e degli estremi, ed è stato proprio questo a renderla un’ideologia degna di rispetto, odiata da tutti coloro che idolatravano l’eccesso. Anche per questo i socialisti sono stati massacrati da nazisti, dai comunisti, dai fascisti. E non si può dire che loro abbiano massacrato mai qualcuno. Quindi, a mio avviso, è giusto ricordare i socialisti e la loro storia, una storia che merita e che è di grande valore, ingiustamente bistrattata dalla storia».





venerdì 20 aprile 2012

Quoque tu Nichi!


Il ragazzo, si fa per dire, è pure simpatico. Con quell’aria da intellettuale colto ma affatto snob, comunista e cattolico al tempo stesso, sognatore e idealista dal linguaggio forbito e spesso aulico, Nichi Vendola è sicuramente un personaggio particolare della politica italiana. Intelligente e navigato, è però talvolta contraddittorio. 
Invoca costantemente le primarie di coalizione tra i partiti del centro-sinistra ma lui non le ha mai fatte per il suo partito, che guida come una sorta di dominus. Alle molte belle parole fa seguire pochi fatti e poche proposte concrete. È uno dei governatori più pagati d’Italia. E non è certo un volto nuovo della politica, vista la sua antica militanza nel PCI e poi in Rifondazione Comunista prima di fondare il partito ad personam, SEL, corredato dal movimento autoreferenziale La fabbrica di Nichi. 
Sette anni fa, vinse, quasi a sorpresa, per la prima volta le elezioni regionali pugliesi, riconfermato nel 2010 per un secondo mandato. 
Ma ognuno ha la propria spina nel fianco. Quella di Vendola si chiama sanità. Ed è a causa della gestione della sanità pugliese, i cui costi sono cresciuti a dismisura sotto il suo governo, che i riflettori della magistratura sono puntati su Vendola. E così pochi giorni fa è toccato anche a lui di essere indagato. L’accusa è pesante: abuso d’ufficio, peculato e falso, condivisa con altre persone.[1] 
I socialisti hanno sempre fatto del garantismo una propria bandiera. 
Quindi, coerentemente, fin quando le accuse non verranno provate e i soggetti coinvolti condannati in via definitiva, per noi vale la presunzione di innocenza. Quello che ci interessa è l’aspetto politico della vicenda. Più grave di quello giudiziario, almeno per ora. Vendola si dice estraneo ai fatti che gli vengono addebitati. La domanda allora sorge spontanea. Come è possibile che chi è a capo di un ente pubblico, in questo caso una regione (ma l’esempio vale anche per gli altri enti) non sappia cosa facciano, come agiscano e perché i proprio collaboratori? È vero, non sempre si può essere “custodi del proprio fratello”. Però ci viene subito in mente il “non poteva non sapere” di dipietrista memoria: vale per tutti mica solo per alcuni.
E se anche Vendola, in perfetta buona fede, non sapesse niente, che credibilità può avere un politico che non sa controllare i propri collaboratori? Vi ricordiamo, gentili lettrici e lettori, che Vendola aspira a guidare l’Italia! E giusto per essere coerenti fino in fondo l’equazione indagato=dimissioni deve valere per tutti non solo per gli avversari. La realtà è che il vendolismo ha smesso da molto tempo la sua spinta propulsiva, supposto che l’abbia avuta realmente, e così il fenomeno Vendola si sta esaurendo. Il buon Nichi preferisce trascorrere la maggior parte del proprio tempo in televisione, da un talk-show all’altro dimenticandosi che è un governatore di regione. I militanti della prima ora cominciano ad abbandonarlo , complice anche la nuova moda italiana cioè l’antipolitica del populista di turno, il novello Masaniello Beppe Grillo. Vendola, da persona intelligente, lo ha capito e ha subito attaccato Grillo, riuscendo a distogliere l’opinione pubblica dai suoi problemi giudiziari. Che però non solo restano ma vanno avanti. 
E che pesano sul suo futuro politico.     

domenica 15 aprile 2012

La chiusura del cerchio magico

Mancava. La girandola di scandali che in questi anni ha colpito tutti i partiti, aveva solo sfiorato la Lega Nord. Fino ad oggi. Le cronache giudiziarie di questi giorni ci consegnano un quadro politico disastroso. 
E’ l’ennesima conferma del fallimento morale e politico dei partiti protagonisti della Seconda Repubblica.
E così, dopo chi allora aveva lanciato sputi e monetine, dopo chi aveva invocato la pena di morte, anche chi aveva sventolato in Parlamento il cappio della forca è stato travolto dagli scandali. Aveva ragione Pietro Nenni quando affermava che “c’è sempre uno più puro che ti epura”. Sgombriamo però il campo dai dubbi. Non c’è alcuno spirito di rivalsa da parte nostra ne alcunché da festeggiare. C’è solo una profonda amarezza e un grande sconforto. Dovuti al fatto che questi partiti (ma si possono definire ancora tali?) , giusto vent’anni fa, hanno avuto l’occasione di rinnovare la politica e con essa il Paese. Invece di affrontare seriamente e risolvere definitivamente la questione morale, non sappiamo se per viltà, per incapacità o per entrambe,  hanno preferito mettere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi. Dall’alto (o dal basso?) della loro presunta, e tutt’altro che dimostrata superiorità morale, questi partiti hanno pensato che, cancellati dalla scena politica i protagonisti della Prima Repubblica, tutto si sarebbe aggiustato da solo così, d’incanto. Non solo si sono sbagliati ma la questione morale si è trasformata sempre più in un grosso bubbone che alla fine è scoppiato. Colpendo proprio coloro che avevano il dovere morale, prima che politico, di eliminarlo. La Lega Nord non ha fatto altro che adeguarsi, nel tempo, allo status quo. Come tutti, ha predicato bene e razzolato male, anzi malissimo. Adesso tutti versano lacrime di coccodrillo e in pochi giorni, per salvare la faccia, la nuova summa della politica nostrana, il triangolo ABC (Alfano, Bersani e Casini), ha proposto una bozza di accordo per i finanziamenti e i rimborsi elettorali dei partiti[1]. Vedremo come andrà a finire. Un’ultima considerazione. Lo scandalo che ha travolto la Lega Nord è la pietra tombale sulla Seconda Repubblica. Anzi, per usare un’espressione tanto cara alla Lega stessa, ha chiuso definitivamente il cerchio magico.
Che di magico aveva solo il potere di far sparire i soldi.
Una fine ingloriosa quella della Seconda Repubblica, un ventennio che doveva rappresentare il riscatto della politica e la rinascita del Paese ma che, invece, si è dimostrato solo peggiore della Prima.


[1] La bozza prevede di bloccare, in attesa di controllo, i rimborsi per le elezioni politiche e regionali ma non quelli delle elezioni europee. I cui rimborsi ingiustamente finiranno nelle casse dei partiti più grossi a discapito di quelli che non sono riusciti a superare la soglia di sbarramento del 4%.