lunedì 28 maggio 2012
La prova del nove
Infine è
successo. Federico Pizzarotti, candidato sindaco del M5S, è riuscito a battere
il suo omologo di centrosinistra e a diventare primo cittadino di Parma. Ormai
tutti i talk show ne parlano. Il M5S è il nuovo astro (per forza…) nascente
della scena politica italiana. Cosa ha determinato il successo dei grillini?
Proveremo a fare un’analisi politica degna di tal nome, senza la presunzione di
avere la verità in tasca e con il solo scopo di portare, a chi ci legge, uno spunto
di riflessione e di discussione. Il M5S si è presentato praticamente solo al
Nord. Il suo successo, per quanto di grande portata, è per ora limitato, si fa
per dire, a questa parte dell’Italia. Vedremo se e quando attecchirà nel resto
del Paese. Il Nord ha attraversato una crisi politica molto grave. La Lega di
Bossi è crollata sotto il peso degli scandali e il Pdl l’ha seguita a ruota.
Sicuramente ciò ha influito non poco sul risultato delle elezioni
amministrative. A Parma si usciva da una gestione di malaffare e tangenti.
L’avversario di Pizzarotti era l’attuale presidente della Provincia di Parma,
non certo un volto nuovo, che aveva avallato parecchi fallimentari progetti
della precedente gestione amministrativa. Infine c’è da considerare anche l’elevato
numero dell’astensionismo sia al primo turno che ai ballottaggi. Con questo non
vogliamo affatto sminuire il successo del M5S. Ora però comincia il bello. Per
dirla con l’Alighieri, “qui si parrà la nobilitate” del M5S. Capiremo se
dietro questa nuova formazione politica ci sono persone e programmi credibili o
è solo populismo. Il dubbio c’è. All’indomani delle elezioni sono già volati i
primi stracci. Pizzarotti, sovvertendo il detto secondo il quale la vittoria ha
molti padri mentre la sconfitta è orfana, ha rivendicato tutta per sé la
vittoria. Grillo non l’ha mandata giù e rispondendogli a muso duro ha detto che
sono i parmensi ad avere vinto non Pizzarotti. Il quale è stato apertamente
accusato da molti grillini, sul blog del capo, di alto tradimento e lesa
maestà. Il duro scontro è proseguito a proposito delle prime nomine di
Pizzarotti, reo di aver chiamato, come collaboratore, un espulso dal M5S.
Insomma “principio sì giulivo ben conduce”[1].
Anche il centrosinistra ha pagato dazio. Idv e Sel più di tutti. Non capiamo, e
non siamo gli unici, i toni soddisfatti del segretario del Pd. Che ha perso
tutte le primarie e quindi i candidati sindaci del centrosinistra, poi eletti,
non erano espressione del partito di Bersani. Ad eccezione di quello di
Parma…In molti, all’interno del Pd, hanno apertamente criticato il segretario e
tutta la nomenclatura del partito, accusati di aver sbagliato molto in queste
elezioni a partire dai candidati, giudicati vecchi e “ammuffiti”. Ai già noti
Renzi e Civati (che ha già detto di volersi candidare per le elezioni regionali
lombarde con o senza il placet del partito!) si sono aggiunti, tra gli altri,
Paola Concia e Deborah Serracchiani. Insomma , la notte dei lunghi coltelli
all’interno del Pd sembra non avere mai fine. Il Partito Socialista ha ottenuto
un buon risultato complessivo. Quando si fa politica in maniera seria e
credibile, poi si viene sempre ripagati. Ovviamente questa lezione vale per
tutti non solo per noi socialisti. Ma la strada per la nostra risalita è lunga
e c’è ancora tanto da lavorare. Queste elezioni hanno portato una nuova,
prepotente, voglia di cambiare il modo e i protagonisti dell’attuale politica.
Il M5S è una realtà con la quale bisogna confrontarsi non sul terreno della
demagogia e del populismo, o liquidandola frettolosamente come qualcuno sta
facendo in questi giorni, ma con programmi e proposte serie portate da persone
oneste, credibili e non ultimo, sobrie. Soprattutto bisogna ritornare a parlare
ai cittadini, a fare politica nelle sezioni e in mezzo alla gente, non in
televisione com’è avvenuto fino ad ora. Bisogna svecchiare la classe politica e
dirigente di questo paese che ormai ha fatto il proprio tempo e deve farsi da
parte. E’ questa una delle principali sfide del M5S. L’appuntamento è per il
2013. Un’occasione, forse l’ultima, che hanno i partiti di poter essere in
grado di attuare il forte cambiamento che il paese chiede loro e non di subirlo
per mano di altri. Pena il loro stesso fallimento. Come direbbe Pietro Nenni, rinnovarsi o perire.
giovedì 10 maggio 2012
Considerazioni sul voto delle amministrative
Senza essere il
Nostradamus di turno, ci sono delle cose non prevedibili a differenza di altre.
All’inizio del campionato nessuno, nemmeno il tifoso più ortodosso, poteva
prevedere la vittoria finale della Vecchia Signora del calcio italiano. Au
contraire erano prevedibili i risultati
di queste elezioni amministrative. Crollo verticale del Pdl, sonora sconfitta
della Lega Nord, Terzo Polo che praticamente non esiste, Sel e Idv raccolgono
misere percentuali (tra il 3% e il 4%), il Pd tiene botta ma non vince. Alla
luce di questi risultati il 3% ottenuto dal Psi, nonostante la perdurante e manifesta
ostilità mediatica, è più che soddisfacente. Avremo occasione di ritornare, in
un prossimo post, sul nostro risultato e sulle prospettive del socialismo in
Italia. E poi ci sono i vincitori:gli astensionisti e la nuova star della
politica, pardon antipolitica, italiana cioè Beppe Grillo e il suo M5S. In
realtà i movimenti antipolitici non sono una novità. Il Fronte dell’Uomo
Qualunque di Guglielmo Giannini ne è il capostipite. Per attenerci alla Seconda
Repubblica, la Lega Nord non è forse nata come movimento antipolitico e
populista? Forza Italia, nei suoi primi vagiti, era sicuramente populista.
L’Idv di Di Pietro può essere definito l’erede moderno del Fronte dell’Uomo
Qualunque, vista la totale mancanza di politica che lo contraddistingue. E come
non notare che a capo di ognuno di questi partiti c’è un unico grande timoniere
proprio come il M5S? Ancora, come si può definire antipolitico o un non-partito
(definizione tanto cara a Grillo) un movimento che partecipa attivamente, con
una propria lista, con un proprio simbolo, con i propri candidati, alle
elezioni? Non è quello che fanno tutti i partiti? Vent’anni fa, sull’onda di
Tangentopoli, ci fu la discesa in campo di un novello uomo della Provvidenza,
magnate dei media e anch’egli antipolitico. Adesso ne abbiamo uno nuovo (di
uomo della Provvidenza) che i media, soprattutto i nuovi (i social network), li
conosce e li usa benissimo. Entrambi (allora c’era anche la neonata Lega Nord)
hanno cavalcato la tigre del malcontento e degli scandali politici con la sola
arma del populismo e della demagogia. Non è un caso che su 100 nuovi elettori
del M5S, quasi il 25% votava Pd, il 16,50% Lega Nord e quasi il 14% Pdl[1]. Intendiamoci. La scoppola ci voleva e pure forte. Il fenomeno Grillo
è nato perché gli attuali partiti sono ridotti chi a gruppi di capibanda che
voglio principalmente spartirsi il potere (il Pd ne è un esempio), chi
a formazioni che accentrano il potere in un’ unica persona (Idv, Sel, Pdl,
Udc). Per non parlare dei privilegi, delle prebende e degli sprechi. Noi
crediamo che con il populismo e la demagogia non si va da alcuna parte. Allo
stesso tempo crediamo che non si può andare avanti con questo modo e questi
attori politici. I partiti devono riformarsi, devono svegliarsi dal torpore che
li attanaglia da un ventennio. Devono riprendersi la loro funzione di indirizzo
politico, non abdicare a essa e alle grandi responsabilità che comporta, come
hanno fatto mettendo in sella un governo tecnico. Un’ultima considerazione. La
definiscono antipolitica perché in tanti considerano la politica “sporca”.
Abbiamo già sentito questa definizione un po’ di tempo fa, a proposito di
politica locale. Chi, come noi, fa parte di un partito, è “sporco”. Essere in
un partito significa avere il coraggio di un’identità politica, o come si suol
dire dalle nostre parti, di “mettersi la maglietta”. Il coraggio della
convinzione di un’idea politica ben definita, di appartenenza a questa idea,
con tutte le conseguenze passate, presenti e future che ciò comporta. Il coraggio
di non annullare questa identità in indefiniti calderoni politici che di
politica ne fanno, per ora, ben poca, solo perché i partiti vanno stretti
(magari per motivi poco nobili…) o per cavalcare onde di qualche genere. Anche
per questo Grillo e il suo M5S non ci piace affatto. Noi rispettiamo tutte le
appartenenze ma altresì pretendiamo rispetto per la nostra, sia come socialisti
che come partito in generale. Ci vogliamo confrontare sulle proposte, sulle
idee e sui programmi non sulle appartenenze a questo o quel partito o movimento
che sia. Questo è per noi il sale della democrazia, anzi la democrazia. Altro
che populismo e demagogia.
martedì 1 maggio 2012
Il 1° maggio e l'articolo 18
Oggi il nostro pensiero e i nostri auguri vanno non solo a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori ma anche, e soprattutto, a chi è disoccupato o ancora alla ricerca di un’occupazione. In occasione di questo 1° maggio e nell’ambito della sempre più accesa discussione della riforma del lavoro e dell’art.18, postiamo un’ întervista di Gino Giugni. Per i più giovani e per chi non lo conoscesse, Gino Giugni è una figura cardine del mondo del lavoro e del riformismo socialista italiano. Infatti Giugni è il padre di quella che è la più importante legge sul lavoro del nostro paese, l’architrave del giuslavorismo in Italia: la legge n. 300 del 1970 meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori”. E’ stato l’inventore del TFR (Trattamento di Fine Rapporto) e ha legato il suo nome anche ad un’altra riforma molto importante, in qualità di Ministro del Lavoro socialista del Governo Ciampi: il protocollo del 1993 sulla politica dei redditi, che favorì il risanamento dei conti pubblici e cambiò il corso delle relazioni industriali. Per il suo impegno e per la sua politica autenticamente socialista e riformista Giugni fu gambizzato, nel 1983, dalle BR. E’ venuto a mancare nel 2009. La seguente intervista fu concessa alla rivista Mondoperaio dieci anni fa e venne pubblicata nel numero di marzo/aprile del 2002.
L’articolo
18 dello Statuto dei lavoratori è oggi il grande idolo polemico del dibattito
sulla nuova politica del lavoro. Cosa ne pensi?
Che l’articolo 18 rappresenti il senso
più profondo dello Statuto dei lavoratori lo dimostrano proprio le polemiche
attuali. Da una parte e cioè da parte dei lavoratori e da parte di governo e
Confindustria, la modifica, l’abrogazione o la salvaguardia di questo articolo
hanno assunto le dimensioni di una posta in gioco simbolica attorno a cui si
combatte la battaglia finale pro o contro lo Stato sociale. Un vero guaio,
perché dalle guerre simboliche, a differenza che da quelle reali, si esce a
fatica e con perdite quasi sempre pesantissime. D’altro canto è la storia
stessa della sua nascita e della sua attuazione a giustificare questo
accanimento.
Ecco,
puoi dirci quali furono i motivi ispiratori della disposizione?
I precedenti non
erano, per così dire, brillanti: prima che entrasse in vigore la legge nota
come Statuto dei lavoratori, c’era una legge del 1966 che era stata fortemente
voluta da Pietro Nenni sul reintegro dei licenziamenti individuali.
Ma restava in gran parte inattuata. L’
articolo 18 dello Statuto la riprese e la superò, divenne il punto nodale di un
nuovo regime di garanzie dei lavoratori e, soprattutto, di un nuovo clima di
cui proprio la giurisdizione del lavoro si fece interprete.
E cominciò anche così
la stagione dei “pretori d’assalto”.
Infatti. Oggi l’espressione non dice
più granché, è una stagione che si è esaurita, assieme a quella eroica delle
grandi rivendicazioni sindacali, negli anni settanta. Ma fu proprio sull’attuazione
dell’articolo sul reintegro dei licenziati senza giusta causa, cioè
sull’effettività dell’articolo 18, che quella stagione prese lo slancio,
gettando nello sconcerto una classe imprenditoriale che credeva di poter
aggirare la norma, proprio perché era convinta che sul piano attuativo la legge
avrebbe finito sempre per funzionare a suo favore. Perché non va dimenticato
che oltre all’articolo 18 nello Statuto ce n’è un altro, il 28, non meno
centrale, visto che istituiva un giudice speciale per le controversie del
lavoro. Probabilmente la memoria sociale è più lunga di quella politica, e gli
imprenditori che trattano l’articolo 18 come una gabbia da cui bisogna liberare
la flessibilità del mercato del lavoro non hanno dimenticato il grandissimo
choc provocato dall’introduzione del principio della reintegrazione: più che
altro, come ho già detto, dalla scoperta della sua effettività attraverso l’attuazione
radicale, quasi ultra petitum, che ne
fecero i cosiddetti pretori d’assalto. I pretori costrinsero gli imprenditori a
capire che lo Statuto esisteva e la sua effettività, in gran parte concentrata
nell’articolo 18, non poteva essere aggirata. Fu una rivoluzione che cominciò proprio
in alta Italia, nel già operoso Nord-Est, con la sentenza di un tribunale
veneto: è facile immaginare quale scalpore produsse nell’Italia degli anni
settanta.
Quali erano le altre esperienze europee
ed occidentali?
A quell’epoca, cioè
la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, il cerchio del garantismo
sociale si allargò in tutti i paesi europei e occidentali, persino in
Inghilterra, che è la vera patria della mano invisibile dell’economia e del
conflitto sociale senza mediazione e senza quartiere. In altri paesi, a
cominciare dalla Germania, in materia di reintegro prevale tuttora il principio
della compensazione finanziaria, una compensazione che è spesso molto alta. Ma
il parallelo che mi sembra più interessante da sviluppare non è tanto con le
esperienze europee più o meno affini a quella italiana, quanto con un sistema
giuridico, quello americano, che solitamente è visto come assolutamente antitetico
al sistema europeo. Bene, con il Wagner Act anche gli Stati Uniti conobbero, e
prima dell’Ita1ia, un sistema di tutela forte, sia pure basato sull’arbitrato e
limitatamente ai contratti collettivi, del diritto al posto di lavoro. Nel 1965
ero a Los Angeles, e un mio amico, Frederik Mayers, dirimeva in loco, cioè nel
capannone di una industria dolciaria, una controversia arbitrale su un
licenziamento: ricordo che, particolare molto americano, sia il rappresentante
sindacale che quello dell’azienda portavano in testa un berretto di carta da
pasticciere. Mayers era un professore di relazioni industriali, ma svolgeva una
funzione equivalente ai nostri pretori d’assalto. Segno che il diritto ad essere
reintegrati nel posto di lavoro dopo un ingiusto licenziamento può essere
interpretato in un’ottica liberal e non solo statalista.
Quanto c’è di
simbolico e quanto invece di effettivo nella polemica tra governo e sindacati?
A dispetto di alcune evidenze di mal
funzionamento, e anche se ha probabilmente esaurito la sua carica innovativa -
e soprattutto i suoi meccanismi di attuazione, sempre più farraginosi, hanno
finito per scontentare anche i lavoratori, oltre agli imprenditori che lo
ritengono il fulcro di un sistema rigido - l’articolo 18 continua a
rappresentare, per il movimento dei lavoratori, il bastione psicologico contro l’attacco
finale a tutto quello che intendiamo con la definizione di Stato sociale.
Negli ultimi mesi,
mentre infuriava la polemica sulla proposta di modifica avanzata dal governo,
hai più volte ribadito che oggi non lo riscriveresti negli stessi termini di
allora.
Ho detto che non lo riscriverei ora perché la struttura
normativa è invecchiata. E se mi si permette un appunto, credo
che tentare a suo tempo un aggiornamento in senso riformista di quelle norme
avrebbe evitato oggi gli scontri, le divisioni e le semplificazioni cui stiamo
assistendo. Di questa esigenza innovativa, in anni passati, solo la
pubblicistica non ha mai smesso di parlare. La pratica riformista, invece, si è
limitata a qualche sortita, come quella di Massimo D’Alema al congresso del Pds
del 1996, quando l’allora segretario fece un cenno abbastanza ampio
sull’opportunità di un intervento correttivo dell’articolo 18. Una proposta che
cadde nel vuoto perché si scontrò subito con l’opposizione intransigente della
Cgil. Il colpo di grazia alle possibilità di innovare senza stravolgere il
senso garantista della norma lo diede il referendum del 2001 con il suo rigido
aut-aut che, come è noto, naufragò sull’iceberg della mancanza di quorum. Il
resto è storia recente, non troppo edificante.
A più riprese il ministro Maroni ha
decretato la morte della concertazione. A tuo avviso questa affermazione, che
peraltro richiama analoghe prese di posizione della Confindustria, si ricollega
alla proposta di modifica dell’articolo 18? Oppure si può prestare fede all’affermazione
che gli elementi di garanzia presenti nella disposizione si sono convertiti nel
tempo in vincoli eccessivi alla flessibilità del mercato del
lavoro? In ogni caso, secondo Aris Accornero, non è detto che la flessibilità
in uscita crei più occupazione.
La
parola flessibilità non mi piace, anzi mi dà francamente ai nervi come tutte le
parole-slogan che dietro una maschera di enfasi dissimulano l’ambiguità dei
loro contenuti. Effettivamente l’equazione fra più flessibilità e più
occupazione, ad esempio, è ancora tutta da dimostrare. Quanto alla
concertazione, per la destra europea è un’idea morta e sepolta. Il berlusconismo
non fa che orecchiare questa liquidazione di una politica che in Italia, per
altro, non ha mai avuto modo di dispiegare tutte le sue potenzialità, anche per
colpa della diffidenza di alcuni settori del mondo sindacale, segnatamente
all’interno della Cgil - che oggi la rimpiange - e di una certa sinistra che ha
il culto idolatrico del conflitto sociale. Ora c’è il “dialogo sociale”,
formula più duttile e più comoda che esclude preventivamente qualsiasi ipotesi
di cogestione della politica economica ed espone, come qua e là si può già
notare, il movimento sindacale a gravi rischi di divisione interna. Anche se
non si può non registrare una certa differenza di percezione all’interno
della stessa maggioranza di governo, dove, soprattutto dentro Alleanza
Nazionale, sopravvive una “destra sociale” assai meno propensa dei liberisti
puri e duri a governare l’economia e il mercato del lavoro senza alcun riguardo
al consenso sociale. Le culture politiche, evidentemente, non si cambiano
dall’oggi all’indomani.
Tra le soluzioni avanzate dal Libro Bianco
per sopperire alle lungaggini dei processi in materia di licenziamenti c’è l’arbitrato.
Se non andiamo errati, si tratta di una tua vecchia proposta.
Quella dell’arbitrato è una proposta che risale alla mia
libera docenza: un saggio di novanta pagine che era interamente dedicato all’arbitrato
e che ebbe una sorte per così dire controversa. I comunisti mi attaccarono,
mentre fui fieramente sostenuto da Giulio Pastore. Più tardi Tiziano Treu ci ha
fatto un disegno di legge che, come tanti altri, è rimasto lettera morta. Ma io
continuo a ritenere che quella arbitrale, tra le soluzioni possibili, rimanga la
più sensata: istituire uno strumento di tutela giudiziale e andare a un
giudizio privato, sostituendo il giudice con un collegio arbitrale, che deve
essere composto attraverso una trattativa tra le parti in causa, può permettere
di accelerare quegli iter processuali che con la loro lentezza danneggiano sia
gli imprenditori che i lavoratori, e che sono diventati uno dei grandi
argomenti polemici agitati dal partito degli “abolizionisti” dell’articolo 18.
Secondo altre opinioni, tra cui quella
del sostituto procuratore della Corte di Cassazione Martone, uno dei modi per
accelerare i processi sui licenziamenti consisterebbe nel creare una corsia
preferenziale nel contenzioso del lavoro, magari aumentando contestualmente il
numero dei magistrati. Sei d’accordo?
Non nego che si tratti di una
buona idea. Considerando la situazione della giustizia italiana, però, non mi
sembra granché realistica. Avevamo creduto nella riforma Bertoldi sul processo del lavoro del 1973, ma si è rivelata
un mezzo fallimento. L’ accelerazione c’è stata ma non è stata sufficiente. No,
il ricorso alla giustizia privata mi sembra una prospettiva più attuabile.
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