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martedì 1 maggio 2012

Il 1° maggio e l'articolo 18




Oggi il nostro pensiero e i nostri auguri vanno non solo a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori ma anche, e soprattutto, a chi è disoccupato o ancora alla ricerca di un’occupazione. In occasione di questo 1° maggio e nell’ambito della sempre più accesa discussione della riforma del lavoro e dell’art.18, postiamo un’ întervista di Gino Giugni. Per i più giovani e per chi non lo conoscesse, Gino Giugni è una figura cardine del mondo del lavoro e del riformismo socialista italiano. Infatti Giugni è il padre di quella che è la più importante legge sul lavoro del nostro paese,  l’architrave del giuslavorismo in Italia: la legge n. 300 del 1970 meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori”. E’ stato l’inventore del TFR (Trattamento di Fine Rapporto) e ha legato il suo nome anche ad un’altra riforma molto importante, in qualità di Ministro del Lavoro socialista del Governo Ciampi: il protocollo del 1993 sulla politica dei redditi, che favorì il risanamento dei conti pubblici e cambiò il corso delle relazioni industriali. Per il suo impegno e per la sua politica autenticamente socialista e riformista Giugni fu gambizzato, nel 1983, dalle BR. E’ venuto a mancare nel 2009. La seguente intervista fu concessa alla rivista Mondoperaio dieci anni fa e venne pubblicata nel numero di marzo/aprile del 2002.

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è oggi il grande idolo polemico del dibattito sulla nuova politica del lavoro. Cosa ne pensi?
Che l’articolo 18 rappresenti il senso più profondo dello Statuto dei lavoratori lo dimostrano proprio le polemiche attuali. Da una parte e cioè da parte dei lavoratori e da parte di governo e Confindustria, la modifica, l’abrogazione o la salvaguardia di questo articolo hanno assunto le dimensioni di una posta in gioco simbolica attorno a cui si combatte la battaglia finale pro o contro lo Stato sociale. Un vero guaio, perché dalle guerre simboliche, a differenza che da quelle reali, si esce a fatica e con perdite quasi sempre pesantissime. D’altro canto è la storia stessa della sua nascita e della sua attuazione a giustificare questo accanimento.

Ecco, puoi dirci quali furono i motivi ispiratori della disposizione?
I precedenti non erano, per così dire, brillanti: prima che entrasse in vigore la legge nota come Statuto dei lavoratori, c’era una legge del 1966 che era stata fortemente voluta da Pietro Nenni sul reintegro dei licenziamenti individuali.
Ma restava in gran parte inattuata. L’ articolo 18 dello Statuto la riprese e la superò, divenne il punto nodale di un nuovo regime di garanzie dei lavoratori e, soprattutto, di un nuovo clima di cui proprio la giurisdizione del lavoro si fece interprete.

E cominciò anche così la stagione dei “pretori d’assalto”.
Infatti. Oggi l’espressione non dice più granché, è una stagione che si è esaurita, assieme a quella eroica delle grandi rivendicazioni sindacali, negli anni settanta. Ma fu proprio sull’attuazione dell’articolo sul reintegro dei licenziati senza giusta causa, cioè sull’effettività dell’articolo 18, che quella stagione prese lo slancio, gettando nello sconcerto una classe imprenditoriale che credeva di poter aggirare la norma, proprio perché era convinta che sul piano attuativo la legge avrebbe finito sempre per funzionare a suo favore. Perché non va dimenticato che oltre all’articolo 18 nello Statuto ce n’è un altro, il 28, non meno centrale, visto che istituiva un giudice speciale per le controversie del lavoro. Probabilmente la memoria sociale è più lunga di quella politica, e gli imprenditori che trattano l’articolo 18 come una gabbia da cui bisogna liberare la flessibilità del mercato del lavoro non hanno dimenticato il grandissimo choc provocato dall’introduzione del principio della reintegrazione: più che altro, come ho già detto, dalla scoperta della sua effettività attraverso l’attuazione radicale, quasi ultra petitum, che ne fecero i cosiddetti pretori d’assalto. I pretori costrinsero gli imprenditori a capire che lo Statuto esisteva e la sua effettività, in gran parte concentrata nell’articolo 18, non poteva essere aggirata. Fu una rivoluzione che cominciò proprio in alta Italia, nel già operoso Nord-Est, con la sentenza di un tribunale veneto: è facile immaginare quale scalpore produsse nell’Italia degli anni settanta.

Quali erano le altre esperienze europee ed occidentali?
A quell’epoca, cioè la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, il cerchio del garantismo sociale si allargò in tutti i paesi europei e occidentali, persino in Inghilterra, che è la vera patria della mano invisibile dell’economia e del conflitto sociale senza mediazione e senza quartiere. In altri paesi, a cominciare dalla Germania, in materia di reintegro prevale tuttora il principio della compensazione finanziaria, una compensazione che è spesso molto alta. Ma il parallelo che mi sembra più interessante da sviluppare non è tanto con le esperienze europee più o meno affini a quella italiana, quanto con un sistema giuridico, quello americano, che solitamente è visto come assolutamente antitetico al sistema europeo. Bene, con il Wagner Act anche gli Stati Uniti conobbero, e prima dell’Ita1ia, un sistema di tutela forte, sia pure basato sull’arbitrato e limitatamente ai contratti collettivi, del diritto al posto di lavoro. Nel 1965 ero a Los Angeles, e un mio amico, Frederik Mayers, dirimeva in loco, cioè nel capannone di una industria dolciaria, una controversia arbitrale su un licenziamento: ricordo che, particolare molto americano, sia il rappresentante sindacale che quello dell’azienda portavano in testa un berretto di carta da pasticciere. Mayers era un professore di relazioni industriali, ma svolgeva una funzione equivalente ai nostri pretori d’assalto. Segno che il diritto ad essere reintegrati nel posto di lavoro dopo un ingiusto licenziamento può essere interpretato in un’ottica liberal e non solo statalista.

Quanto c’è di simbolico e quanto invece di effettivo nella polemica tra governo e sindacati?
A dispetto di alcune evidenze di mal funzionamento, e anche se ha probabilmente esaurito la sua carica innovativa - e soprattutto i suoi meccanismi di attuazione, sempre più farraginosi, hanno finito per scontentare anche i lavoratori, oltre agli imprenditori che lo ritengono il fulcro di un sistema rigido - l’articolo 18 continua a rappresentare, per il movimento dei lavoratori, il bastione psicologico contro l’attacco finale a tutto quello che intendiamo con la definizione di Stato sociale.

Negli ultimi mesi, mentre infuriava la polemica sulla proposta di modifica avanzata dal governo, hai più volte ribadito che oggi non lo riscriveresti negli stessi termini di allora.
Ho detto che non lo riscriverei ora perché la struttura normativa è invecchiata. E se mi si permette un appunto, credo che tentare a suo tempo un aggiornamento in senso riformista di quelle norme avrebbe evitato oggi gli scontri, le divisioni e le semplificazioni cui stiamo assistendo. Di questa esigenza innovativa, in anni passati, solo la pubblicistica non ha mai smesso di parlare. La pratica riformista, invece, si è limitata a qualche sortita, come quella di Massimo D’Alema al congresso del Pds del 1996, quando l’allora segretario fece un cenno abbastanza ampio sull’opportunità di un intervento correttivo dell’articolo 18. Una proposta che cadde nel vuoto perché si scontrò subito con l’opposizione intransigente della Cgil. Il colpo di grazia alle possibilità di innovare senza stravolgere il senso garantista della norma lo diede il referendum del 2001 con il suo rigido aut-aut che, come è noto, naufragò sull’iceberg della mancanza di quorum. Il resto è storia recente, non troppo edificante.

A più riprese il ministro Maroni ha decretato la morte della concertazione. A tuo avviso questa affermazione, che peraltro richiama analoghe prese di posizione della Confindustria, si ricollega alla proposta di modifica dell’articolo 18? Oppure si può prestare fede all’affermazione che gli elementi di garanzia presenti nella disposizione si sono convertiti nel tempo in vincoli eccessivi alla flessibilità del mercato del lavoro? In ogni caso, secondo Aris Accornero, non è detto che la flessibilità in uscita crei più occupazione.
La parola flessibilità non mi piace, anzi mi dà francamente ai nervi come tutte le parole-slogan che dietro una maschera di enfasi dissimulano l’ambiguità dei loro contenuti. Effettivamente l’equazione fra più flessibilità e più occupazione, ad esempio, è ancora tutta da dimostrare. Quanto alla concertazione, per la destra europea è un’idea morta e sepolta. Il berlusconismo non fa che orecchiare questa liquidazione di una politica che in Italia, per altro, non ha mai avuto modo di dispiegare tutte le sue potenzialità, anche per colpa della diffidenza di alcuni settori del mondo sindacale, segnatamente all’interno della Cgil - che oggi la rimpiange - e di una certa sinistra che ha il culto idolatrico del conflitto sociale. Ora c’è il “dialogo sociale”, formula più duttile e più comoda che esclude preventivamente qualsiasi ipotesi di cogestione della politica economica ed espone, come qua e là si può già notare, il movimento sindacale a gravi rischi di divisione interna. Anche se non si può non registrare una certa differenza di percezione all’interno della stessa maggioranza di governo, dove, soprattutto dentro Alleanza Nazionale, sopravvive una “destra sociale” assai meno propensa dei liberisti puri e duri a governare l’economia e il mercato del lavoro senza alcun riguardo al consenso sociale. Le culture politiche, evidentemente, non si cambiano dall’oggi all’indomani.

Tra le soluzioni avanzate dal Libro Bianco per sopperire alle lungaggini dei processi in materia di licenziamenti c’è l’arbitrato. Se non andiamo errati, si tratta di una tua vecchia proposta.
Quella dell’arbitrato è una proposta che risale alla mia libera docenza: un saggio di novanta pagine che era interamente dedicato all’arbitrato e che ebbe una sorte per così dire controversa. I comunisti mi attaccarono, mentre fui fieramente sostenuto da Giulio Pastore. Più tardi Tiziano Treu ci ha fatto un disegno di legge che, come tanti altri, è rimasto lettera morta. Ma io continuo a ritenere che quella arbitrale, tra le soluzioni possibili, rimanga la più sensata: istituire uno strumento di tutela giudiziale e andare a un giudizio privato, sostituendo il giudice con un collegio arbitrale, che deve essere composto attraverso una trattativa tra le parti in causa, può permettere di accelerare quegli iter processuali che con la loro lentezza danneggiano sia gli imprenditori che i lavoratori, e che sono diventati uno dei grandi argomenti polemici agitati dal partito degli “abolizionisti” dell’articolo 18.

Secondo altre opinioni, tra cui quella del sostituto procuratore della Corte di Cassazione Martone, uno dei modi per accelerare i processi sui licenziamenti consisterebbe nel creare una corsia preferenziale nel contenzioso del lavoro, magari aumentando contestualmente il numero dei magistrati. Sei d’accordo?
Non nego che si tratti di una buona idea. Considerando la situazione della giustizia italiana, però, non mi sembra granché realistica. Avevamo creduto nella riforma Bertoldi sul processo del lavoro del 1973, ma si è rivelata un mezzo fallimento. L’ accelerazione c’è stata ma non è stata sufficiente. No, il ricorso alla giustizia privata mi sembra una prospettiva più attuabile.


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